mercoledì 2 maggio 2012

FANTASMI

   Ora che sto qui a levigarli e lucidarli, questi dieci racconti, mentre dovrei solo liberarmene e fare altro, mi sembra di sfogliare non le pagine di un libro futuro, ma un vecchio album di fotografie.
   Il racconto dei pirati fu il primo, nell’inverno del 2008, quando passavo tutti i giorni alla Scighera e leggevo solo libri sulla filibusta. L’idea sui branchi di maschi mi ricordo da dove viene: ne parlavo spesso con Remigio, di maschi e di lupi, sul prato di Fontane. E la scena in cui i due amici si separano, alla fermata di Smith Street sulla linea F, l’ho scritta proprio a Brooklyn nell’aprile del 2010. Sono uscito di casa e sono sceso in metropolitana con il mio quaderno, mi sono seduto su una panchina, ho immaginato la scena e l’ho scritta. Quaderni come quello mi hanno accompagnato ovunque in questi anni. Li ha comprati mio padre in Malesia e mi pare giusto che uno dei racconti cominci proprio così: con mio padre a Singapore che contempla l’Oceano Indiano. Sono quaderni di dimensioni A4, con la copertina di cartone e le pagine numerate, quattrocento ciascuno. Ne ho riempiti cinque con le storie di Sofia. Potrei anche sfogliarli come pagine di diario: qua e là c’è il disegno di un larice, l’indirizzo di un pub newyorkese, il nome e il numero di telefono di qualcuno che non so più chi è, macchie di caffè e di vino, brani di libri che stavo leggendo e mi andava di ricopiare, ma più che altro c’è quello, parole su parole, un mucchio di bucce d’uva fermentata e un laborioso processo di distillazione. Duemila pagine che diventeranno duecento. A quanto pare, da cento chili di vinaccia si estraggono sei litri di grappa: dunque il mio alambicco non è stato poi così spietato, e il mio nettare più che a torcibudella assomiglierà a un liquore per signorine.

   Non ho un racconto preferito, oppure il preferito cambia a seconda dell’umore. Nei giorni di bonaccia mi piacciono quelli brevi, secchi e puliti, ma quando mi sento montare il mare mosso quei racconti mi sembrano solo dei giochini, e preferisco quelli lunghi, sofferti, imperfetti. Tutti sono nati da un modello, anche se poi magari scrivendo hanno preso la loro strada, e del modello non conservano più molto. Ma se ci ripenso ora posso risalire a ciascuna fonte: il primo viene da Hemingway, Un racconto molto breve; il secondo da Ortiche di Alice Munro; il terzo da Per Esmé di Salinger; Gente del Wyoming di Annie Proulx ne ha ispirati ben due. È importante per me quest’idea, che scrivere sia come dialogare coi miei maestri vivi o morti, provare a raccogliere il loro testimone. Nel mio libro c’è Carver nell’uomo che chiama l'amante dalla cabina del telefono, nella donna che mette i mobili fuori di casa; c’è Salinger in ogni dialogo tra un adulto e un bambino; ci sono Cheever e Yates in ogni piscina gonfiabile, ogni villetta a schiera. C’è perfino Il velo nero di Hawthorne, e i Maschietti di Moody che non mancano mai, Esther Stories di Orner che è il mio sussidiario, e come ho fatto a dimenticare Le vergini suicide? Sono lì nella scena in cui il ragazzino entra nella stanza di Sofia, molti anni dopo che lei se n’è andata. Per dire di come le fonti si mescolano, a lui ho dato il nome del gestore di un rifugio che ho conosciuto in Valsesia. Era un nome troppo bello per non usarlo in un racconto. Anche il cane di Sofia è ispirato a quello dei miei vicini d’alpeggio, il vecchio cane pastore sempre in cerca di biscotti, e l’ho chiamato Mozzo come lui.

   Chissà se qualcuno troverà tutti i libri nascosti nel mio libro, se le persone sapranno di essere proprio loro, se chi è stato con me in un luogo lo riconoscerà. In un racconto c’è Nadia nell’incubatrice, quando è nata e hanno sgomberato il reparto per colpa della sua salmonella, e mia madre che le parla seduta lì accanto, appena arrivata dal Veneto dopo la scuola da infermiere. C’è il laghetto di Gressoney Saint-Jean con l’isola e il gazebo, solo che nel mio libro sta in Brianza, dove rischiammo di andare a vivere verso la metà degli anni Ottanta (sia benedetto chi quella volta ha cambiato idea). C’è Marina che fa la lotta armata e Dino che predica l’anarchia alle giovani menti, meglio se con un bicchiere di rosso in mano. C’è Sara sdraiata sul pavimento, che si fa scrocchiare le vertebre cervicali. Gabbole che mi accusa di ipocrisia e moralismo, e quando non sa più cosa dire chiede: e quindi? C’è Viola e i nostri primi mesi a Roma, le coinquiline di Laura a Torino, un intero racconto dedicato alla Bovisa e un altro a Red Hook, una cena con Nadia in un ristorante di Napoli, un viaggio con Giorgio a Francoforte, vaghi ricordi d’infanzia sul lago di Lecco e l’immagine nitidissima di una porta, chiusa a chiave e senza maniglia: era di fronte alla mia camera in montagna, di notte mi dava gli incubi. In vent’anni non ho mai saputo che cosa ci fosse lì dentro, però adesso che quella porta sta in un racconto è come se nella mia vita avesse preso finalmente un senso, e di incubi non me ne darà più.
   A volte mi sembra che scrivere storie non sia altro che questo: mettere un po’ d’ordine al caos della memoria, proprio come facciamo luce su un ricordo oscuro solo raccontandolo a qualcun altro, e più lo raccontiamo più lo mettiamo a posto, lo rendiamo logico e comprensibile, gli costruiamo una bella scatola dove poterlo conservare, e poco importa se quella cosa che otteniamo alla fine non assomiglia più molto alla realtà dei fatti. Tanto la realtà dei fatti che cos'è? In ogni tribunale sanno bene che un testimone vale molto meno di una prova. La memoria è un racconto, non un documento, e qualsiasi racconto contiene un mucchio di bugie. In questo senso la narrativa è più onesta dell’autobiografia, dichiara apertamente la propria natura: non pretende di stabilire la verità senza distorsioni, anzi si arrende all’idea che la memoria è una distorsione del reale. Bum. Ecco qui il povero scrittore di racconti, partito dall’alambicco per la grappa e giunto a interrogarsi sulle grandi domande universali. Tra un po’ mi chiederò: esiste un Narratore Onnisciente? E le stelle sono solo punture di spillo nel velo che separa noi da Lui?

   Niente, dicevo, ora dovrei solo liberarmi di tutta questa roba, consegnarla alle sante donne di minimum fax perché ne facciano un oggetto che sia bello, colorato e profumato d’inchiostro, così un giorno non troppo lontano ce l’avrò tra le mani e potrò guardarlo con molta nostalgia e un po’ di disgusto. Nostalgia per quando lo stavo vivendo e pure per quando lo stavo scrivendo. Disgusto perché non sarà mai come volevo che fosse. Lo metterò sullo scaffale insieme agli altri tre e lo scruterò ogni tanto con un sopracciglio alzato. Per tenere lontano quel momento, rileggo un racconto al giorno e trovo sempre qualcosa su cui lavorare: ripetizioni da correggere, dati storici e geografici da controllare, l’episodio romano che continua a non convincermi del tutto e il finale di quell’altro, su cui proprio non riesco a decidere che cosa sia meglio. Il mogano era liscio e lucido, come se fosse stato appena passato con la cera, oppure Il mogano era liscio e lucido, come se qualcuno l’avesse appena passato con la cera? Ogni volta che lo rileggo cambio versione, e dopo qualche giorno la rimetto com’era prima. Il famoso decalogo del Kansas City Star, dove Hemingway si formò come cronista, forniva regole ben precise: la forma affermativa del verbo è da preferire a quella negativa, la forma attiva a quella passiva. Però loro parlavano di furti e omicidi. Dichiarazioni politiche, incontri di pugilato. Bisognava essere chiari, non lasciare niente di ambiguo, dare al lettore tutte le risposte di cui aveva bisogno. Io al lettore non ho altro da dare che le mie domande. Come diavolo si descrive un mobile lucidato dai fantasmi?


5 commenti:

  1. Ho capito che dovro' mettermi l'anima in pace ed aspettare che i fantasmi del mogano ti lascino in pace.
    Non vedo l'ora di leggerli!
    Un abbraccio e a presto
    Nunzio

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  2. Piacere di rileggerti Paolo. Ben tornato. Un caro saluto.
    Marco

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  3. Mi è sempre sembrato più ovvio che i fantasmi sulle cose lasciassero una patina opaca: niente legno fresco di cera... ma in realtà la patina, a pensarci bene, la lascia il tempo, e non gli spiriti. Buon lavoro, spero di leggerne presto i frutti.

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  4. sono impaziente di leggerti.
    (a settembre il libro nuovo?)
    gabriele

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  5. "Come diavolo si descrive un mobile lucidato dai fantasmi?"

    Dopo profonda meditazione dopo aver scelto tra le due frasi: "Il mogano era liscio e lucido, come se fosse stato appena passato con la cera", credo che un mobile lucidato dai fantasmi possa presentarsi con un'aurea quasi immateriale. Essere così lucido e liscio da confondersi con i contorni.

    Il tutto, umilmente, aspettando i tuoi racconti, i fantasmi e tutti i libri nascosti nel tuo.

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